Morta Rosetta Loy, la scrittrice della memoria

di IDA BOZZI

È scomparsa a Roma la pluripremiata narratrice di «Le strade di polvere»

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Rosetta Loy (1931-2022, foto Ansa)

Era stata definita «autrice della memoria», perché nelle sue opere si affacciava la grande storia dell’Ottocento e del Novecento, intrecciata alle vicende familiari del Monferrato paterno e della Roma materna. Si è spenta nella capitale a 91 anni la scrittrice Rosetta Loy, lo ha annunciato la figlia Margherita. I funerali, come ha comunicato la famiglia, si svolgeranno domani nella chiesa di Santa Maria Immacolata di Grottaferrata (alle ore 10.30). La scrittrice sarà poi tumulata «per suo espresso desiderio» in Piemonte nel cimitero di Mirabello Monferrato, il paese che divenne anche luogo di ambientazione letteraria. «Le strade di polvere, La parola ebreo, Cioccolata da Hanselmann, La prima mano, Gli anni fra cane e lupo... sono i tuoi titoli che ho più amato, che il viaggio ti sia lieve»: così l’ha salutata la figlia, in un post su Facebook.

Quella piemontese era la terra del padre, mentre la madre veniva dall’amatissima Roma, dove la stessa scrittrice (da nubile si chiamava Provera) era nata il 15 maggio 1931, destinata a diventare una delle autrici della «generazione degli anni Trenta», la stessa di Gesualdo Bufalino e Umberto Eco. Esordì nel 1974 con La bicicletta (Einaudi) con cui si distinse vincendo il Premio Viareggio opera prima. Degli anni seguenti sono altri romanzi noti, come La porta dell’acqua (Einaudi, 1976), L’estate di Letuche (Rizzoli, 1982) e All’insaputa della notte (Garzanti, 1984), ma è del 1987 il più celebre, Le strade di polvere, uscito per Einaudi. Una saga familiare che vinse premi prestigiosi, il Campiello e il Supercampiello, il Viareggio, il Città di Catanzaro, il Rapallo (1988) e infine il Montalcino (1989).

Le strade di polvere è la summa del suo stile particolare e dei suoi temi, la storia, la guerra, i sentimenti, i legami parentali: Loy narra la vicenda di una famiglia monferrina dalla fine dell’età napoleonica all’Italia unita; il taglio è realistico, lo stile essenziale, con una lingua sobria in cui entra talvolta il vocabolo dialettale, come il soprannome che i paesani danno ai giovani fratelli che aprono la saga: divisi dall’amore, Pietro, detto il Pidrèn, aderirà con entusiasmo alle campagne napoleoniche, l’altro, Giuseppe detto il Giai, coronerà un breve sogno sposando la bella Maria.

Con due titoli degli anni Novanta, Rosetta Loy affrontò un altro capitolo della storia delle famiglie d’Italia, gli anni del regime fascista e delle leggi antiebraiche. Le osservò con sgomento in Cioccolata da Hanselmann (Rizzoli, 1995), con cui ottenne il Premio Grinzane Cavour per la narrativa italiana, e in La parola ebreo (Einaudi, 1997), che ottenne il Premio Fregene e il Rapallo-Carige. I due libri costituiscono due approcci progressivi e diversi al racconto delle persecuzioni. Cioccolata da Hanselmann ha un taglio più decisamente romanzesco, narra la storia dell’amicizia tra una bimba cattolica e un ragazzino ebreo, interrotta dalle leggi razziali.

Diverso il taglio di La parola ebreo: con estrema modernità, il libro è un romanzo, ma è anche un memoir, e pure un saggio culturale e letterario. Il punto di vista è quello della stessa autrice, che traccia la storia della sua famiglia, cattolica e borghese, ricordando la vita quotidiana nel periodo intorno al 1938 delle leggi razziali. Loy si racconta ancora bambina, appunto in una famiglia cattolica, non fascista e non razzista, mentre intorno monta l’antisemitismo: da una parte, la bambina osserva con vivo interesse la collanina con la stella di Davide al collo della compagna di giochi, o ricorda con affetto il suo pediatra, il professor Luttazzi; dall’altra, la scrittrice passa in esame alcuni casi letterari di quegli anni, come il Gog (Vallecchi, 1931) di Giovanni Papini, bestseller dell’epoca che diffondeva il pregiudizio antisemita; o annota i commenti razzisti della tata tedesca nei confronti dei vicini di casa ebrei.

L’attenzione di Rosetta Loy per il momento storico che si intreccia al costume è rimasto vivo anche nelle opere più recenti, accanto a testi autobiografici come La prima mano (Rizzoli, 2009): vanno ricordati Cuori infranti (nottetempo, 2010), due novelle «nere« in cui la scrittrice ricostruisce gli omicidi di Novi Ligure e di Erba, e Gli anni fra cane e lupo (Chiarelettere, 2013), in cui ripercorre la storia d’Italia dal 1969 al 1994. Molti i premi ricevuti in anni recenti: tra questi, il Bagutta nel 2005 e il Campiello alla carriera nel 2017.

Sposata nel 1955 con Beppe Loy, fratello del regista Nanni Loy, negli anni successivi alla morte del marito, avvenuta nel 1981, la scrittrice coltivò un profondo rapporto intellettuale e sentimentale con il critico letterario Cesare Garboli (1928-2004), tra i suoi più attenti lettori: fu lui a definire la scrittura di Rosetta Loy «rapida, essenziale, concreta; ma, come certi scrittori dell’Ottocento, si esalta in quegli argomenti sui quali finiamo sempre col misurare, per abitudine, il talento dei romanzieri: l’amore, la guerra, i bambini, la morte».

Al critico, nel 2018 la scrittrice dedicò il suo ultimo libro, la biografia Cesare, pubblicata da Einaudi: un testo che unisce, di nuovo, privato e pubblico, la storia della carriera e del lavoro critico di Garboli ma anche le delicate parentesi personali. Come quando, in un passaggio del volume, Loy narra il gesto affettuoso dell’uomo in una serata fredda: «Io mi appoggio a un tronco e Cesare mi tira su il bavero del giaccone per difendermi dal freddo. E se questa è una resa non ci sono parole che la raccontano...».

2 ottobre 2022 (modifica il 2 ottobre 2022 | 21:54)