Morto Piergiorgio Bellocchio, fondatore dei «Quaderni piacentini»

di CRISTINA TAGLIETTI

Critico e organizzatore culturale, era stato direttore di «Lotta Continua». Per il fratello, il regista Marco, l’anno scorso era comparso nel documentario «Marx può aspettare»

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Piergiorgio Bellocchio nel 2005 (Contrasto/Archivio Corsera)

Critico letterario attento alla chiave sociale e politica, narratore, fondatore nel 1962 dei «Quaderni piacentini», rivista simbolo dell’anima eterodossa della sinistra italiana, Piergiorgio Bellocchio, morto il 18 aprile a novant’anni nella sua casa di Piacenza, è stato un intellettuale eretico, lontano da ogni conformismo e convinto sostenitore che la vera letteratura debba nutrirsi delle trasformazioni sociali. Con i «Quaderni piacentini» — alla cui elaborazione si aggiunsero presto Grazia Cherchi e Goffredo Fofi — animò il dibattito culturale negli anni Sessanta-Settanta seguendo una linea di autonomia e indipendenza nei confronti di qualsiasi organizzazione politica germinata a cavallo del Sessantotto.

I propositi, scrisse nell’editoriale intitolato Prova per una rivista da farsi pubblicato sul primo numero che, come il secondo, venne ciclostilato, «sono di studiare i problemi locali di fondo — dalla scuola all’editoria, dall’industria all’agricoltura, dalla stampa ai divertimenti — con un’apertura mentale ampia e spregiudicata, non provinciale». Il Vietnam, la questione arabo-palestinese, la Cina di Mao Zedong e i movimenti studenteschi, le rivolte operaie, le stragi, le battaglie civili: la rivista affrontò ogni tipo di dibattito, accogliendo opinioni contrastanti anche al suo interno e riunendo intorno al nucleo fondatore amici e collaboratori di varie età e posizioni, come Cesare Cases, Franco Fortini, Giovanni Giudici, Giovanni Jervis, Ernesto Masi.

«Quaderni piacentini» era una rivista agile dove il lettore poteva trovare la politica, la letteratura, la filosofia e la psicoanalisi, la sociologia e l’economia, ma anche la poesia con autori già noti come Vittorio Sereni e lo stesso Fortini, e altri che lo sarebbero diventati, come Fernando Bandini, Giovanni Raboni, Roberto Roversi, Giancarlo Majorino. In pagina c’erano rubriche molto seguite come Franco tiratore o Da leggere e Da non leggere, stroncature caratterizzate da giudizi gustosi, a volte tranchant, capaci di mietere vittime illustri di cui magari in seguito fare ammenda, come il Vladimir Nabokov di Lolita. « Va da sé — era scritto in uno degli ultimi numeri — che i libri vincitori dei premi Strega, Viareggio e Campiello sono tutti da non leggere».

Nato a Piacenza nel 1931 da una facoltosa famiglia borghese, Piergiorgio Bellocchio era il primogenito di otto figli, tra cui il regista Marco, autore, lo scorso anno, del film documentario Marx può aspettare a cui il critico prese parte con gli altri fratelli (Letizia, Alberto e Maria Luisa) per rievocare l’evento tragico che sconvolse la famiglia: il suicidio, nel 1968, di Camillo, gemello di Marco. A Paolo Di Stefano in una delle ultime, preziose interviste, pubblicata sul «Corriere» nel febbraio 2020 aveva raccontato: «Sono povero, non ho più un soldo, ho campato a lungo sulle rendite senza mai sprecare nulla. Noi dei “Quaderni piacentini” avevamo una specie di terrore del lucro, appena vendevamo un po’ abbassavamo il prezzo senza tesaurizzare. Abbiamo sempre lavorato gratis».

Chiara e precisa, la scrittura di Bellocchio — che, come narratore, aveva esordito con tre racconti, I piacevoli servi, usciti nel 1966 nella collana Mondadori Il Tornasole, voluta da Vittorio Sereni e Niccolò Gallo — era animata da una profonda tensione morale e da un’esigenza di rinnovamento ideale e politico.

Fu anche il primo direttore responsabile di «Lotta Continua» di cui però non seguì direttamente la lavorazione redazionale , mentre dal 1985 al 1993 con Alfonso Berardinelli inventò e redasse «Diario », una pubblicazione arricchita dalle pagine riproposte di grandi autori, come Kierkegaard, Leopardi, Tolstoj, Simone Weil. Con due numeri all’anno, «Diario» recuperava il senso di una puntuale critica del presente prendendo atto del cambiamento dello scenario sociale e politico, «contro la falsa coscienza di una sinistra che si immaginava immune dal contagio della cultura dominante, convinta di aver conservato una sua diversità culturale»

Uno stile ironico e risentito, che mescola passione e razionalità caratterizzava le osservazioni di Bellocchio sul presente e sui fenomeni culturali: le traduceva in aforismi o racconti brevi, come quelle, per lo più provenienti dal «Diario», raccolte nel volume Dalla parte del torto (Einaudi, 1989), o nell’apocalittico Eventualmente (sottotitolo: Osservazioni sul panorama aculturale, Rizzoli 1993), a cui seguirono L’astuzia delle passioni. 1962-1983 (Rizzoli, 1995), Oggetti smarriti (Baldini&Castoldi, 1996) e Al di sotto della mischia. Satire e saggi (Libri Scheiwiller, 2007).

Lettore vorace, nel 2020 aveva pubblicato il volume Un seme di umanità (Quodlibet), raccolta di saggi, prefazioni, recensioni, scritti tra il 1967 ed il 2005 che vanno dai classici dell Ottocento (Dickens, Dostoevskij, Stendhal, Flaubert...) a Pier Paolo Pasolini; da Edmund Wilson, che considerava un maestro, al maledetto Ferdinand Céline delle Bagatelle («con le sue unghie sporche continua a sembrarmi carico di verità anche quando è al suo peggio»), ma anche all’amico Danilo Montaldi, autodidatta cremonese coltissimo, esperto di sociologia, letteratura, musica, arte. Una figura ai margini che Bellocchio definì «il migliore esempio di libertà e coerenza che io abbia incontrato nel mondo intellettuale». Negli ultimi tempi il lockdown causato dalla pandemia, lo aveva costretto a un isolamento accettato con rassegnazione, come gli anni che passavano. «La vecchiaia è una brutta bestia — aveva detto con il lucido pessimismo che lo caratterizzava nell’intervista a Di Stefano — e ormai non c’è più verso di morire, la vita è troppo lunga».

18 aprile 2022 (modifica il 18 aprile 2022 | 19:24)