Patrick Zaki sarà scarcerato, le mani gelate della sorella e poi l’urlo liberatorio del papà: «Grazie Italia»

di Marta Serafini

Nell’aula di tribunale con la famiglia. «Ora va tutto bene»

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DALLA NOSTRA INVIATA
MANSOURA —
Una giornata che sono cento. E che cambia temperatura come le mani di Marise, la sorella di Patrick. Fredde come il ghiaccio mentre il giudice si prende il suo tempo per deliberare. «Grazie, grazie, per quello che state facendo per lui». E Marise si tormenta la manica del maglione blu mentre gli occhi non smettono di correre in giro. Vedere il fratello durante la prima parte dell’udienza, anche solo per pochi minuti, ha portato un po’ di caldo nelle vene. Ma è durato poco, troppo poco, dopo 22 mesi di angoscia. «È riuscito a salutare la mamma era tanto che non si vedevano, almeno un mese», sussurra. E lui è ancora lì, dietro le sbarre. Poi tutti fuori dall’aula, in mezzo ai parenti degli altri detenuti. Una guardia con la pistola viene a controllare i documenti.

Le voci iniziano a rimbalzare. «Ci sarà un rinvio». Si rientra. Marise e mamma Hala in prima fila si stringono l’una all’altra. Le mani sono calde ora, il sangue circola più veloce. Nell’altro banco Hoda Nasrallah, l’avvocata della Eipr, la ong con cui Patrick collaborava, sta ferma immobile con la schiena dritta, nei banchi dietro di lei, tutti gli attivisti e i compagni della Eipr. Poi i rappresentati diplomatici della delegazione di osservatori voluta dall’ambasciata italiana. Entrambi che non smettono di andare avanti e indietro. «L’ho visto bene, dai, meno nervoso delle altre volte».

In ultima fila papà George. C’è tempo per due parole. «Io non dico niente. Solo pensarlo a casa mi pare impossibile, un sogno. Ma grazie, grazie davvero». Nella gabbia c’è un detenuto «comune», un uomo che ha firmato un assegno in bianco. «Il giudice ora ordinerà il suo rilascio», dice qualcuno. E di nuovo le mani di Marise sono di ghiaccio. Rientra il giudice, c’è via vai con il banco. Mr. Salim, l’avvocato dell’ambasciata italiana, che tutti conosce e tutto sa sussurra piano, «buon segno, buon segno». Il magistrato dà la notizia all’avvocata: Patrick sarà liberato . Ecco l’urlo di Hala e Marise. «Mabrouk, mabrouk» congratulazioni, come per una nascita. «Tamem, tamem», va tutto bene, va tutto bene, la frase che Patrick ripete sempre alla mamma.

I funzionari del tribunale fanno allontanare tutti. In strada Hoda e Lobna Darwish, dirigente della Eipr che fin qui è rimasta ferma in mezzo alla tempesta, si abbracciano stretto. Lacrime, sorrisi, pacche sulle spalle. Da Bologna arriva il messaggio della professoressa Rita Monticelli, del master. «Lo aspetto, aspetto qui». Marise e Hala si precipitano a cercare del cibo. Patrick non mangia da domenica. «Ma dov’è Patrick ora? Dove lo portano?». Forse lo rilasciano già oggi, forse no. Forse prima lo riportano a Tora. Forse esce qui a Mansoura. Forse. C’è chi salta in auto e parte per il Cairo, chi resta. Poi cala il silenzio. E restano i clacson incessanti della città. Iniziano a rimbalzare le notizie. «Marise dov’è Patrick ora? L’hanno rilasciato?». «Non sappiamo niente di certo. Non l’abbiamo ancora visto». Il sole cala sulla casa dove Patrick è cresciuto e dove lo aspettano. Le mani tornano ad essere fredde. Lobna della Eipr paziente risponde a tutti. «Dovrebbero avergli fatto firmare dei documenti». Marise va al commissariato a verificare se hanno portato lì Patrick. «No, niente». Anche all’ambasciata italiana aspettano. I telefoni accesi fino a tardi. Papà George spera ancora sia per oggi. Ma alla stazione di polizia dove Patrick dovrebbe essere portato dalla prigione di Mansoura sono chiari. «Non è ancora qui. Forse è al dipartimento della Nsa, l’intelligence egiziana». Ed è di nuovo freddo. Sudore ghiacciato sul palmo delle mani. Patrick non è ancora fuori.

7 dicembre 2021 (modifica il 8 dicembre 2021 | 07:07)