12 gennaio 2020 - 22:51

La trappola dei lavori che rubano
il tempo, promettono libertà
ma divorano le famiglie

Dal film «Sorry we missed you» di Ken Loach al caso di Cédric Chouviat, i nuovi precari: sono autisti, motociclisti, ciclisti, che affollano le nostre metropoli portando pasti, pacchi e lettere

di Antonio Polito

La trappola dei lavori che rubano  il tempo, promettono libertà  ma divorano le famiglie
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La notizia era a una colonna sul Corriere, in una pagina interna. Se non avessi visto la sera prima l’ultimo film di Ken Loach, «Sorry we missed you», forse non l’avrei neanche letta: «Fattorino morto per un controllo», diceva il titolo. Cédric Chouviat, 42 anni, padre di cinque bambini, viene fermato dalla polizia a Parigi mentre guida lo scooter che gli serve per fare consegne, ogni giorno dalle sei del mattino: si innervosisce, gli agenti anche, partono insulti e spintoni. La situazione degenera, i poliziotti lo buttano giù, ventre a terra, per mettergli le manette. Gli si ferma il cuore, gli agenti stessi gli praticano il massaggio cardiaco, muore dopo tre giorni di coma. Frattura della laringe, pare che sia un pericoloso effetto collaterale della tecnica del «placcaggio ventrale». La polizia parigina è sotto accusa. Ma fermiamoci prima: un uomo di 42 anni, cinque figli, che per vivere fa consegne con lo scooter, dalle sei del mattino. Se qualcuno ha visto come me il film di Ken Loach riconoscerà nella povera vittima di Parigi la sindrome — fatta di spossatezza, alienazione e rabbia — che accompagna le giornate dei «nuovi proletari», autisti, motociclisti, ciclisti, che affollano le nostre metropoli portando pacchi e lettere e pasti, nuovi schiavi della «società signorile di massa», per usare il titolo di un fortunato libro di Luca Ricolfi. Persone spesso non più giovani, neanche povere in senso tradizionale. Working poor, si dice in inglese. Gente cioè con un lavoro ma senza una vita, perché il lavoro si mangia la vita. Persone che accettano un impiego così perché hanno famiglia, ma che spesso perdono la famiglia perché fanno un lavoro così.

I nuovi negrieri

I nuovi negrieri li attraggono con la più moderna delle seduzioni: un lavoro autonomo, in cui sono padroni del mezzo, e non hanno il limite di un orario o di un salario, possono guadagnare bene se corrono molto, se consegnano in tempo, se il cliente è soddisfatto. Un’apparente libertà rispetto al posto fisso, o al lavoro manuale di un tempo, che può anche giustificare sogni di ascesa sociale, di un decoro piccolo-borghese, comprare un giorno una casa col mutuo, dare una scuola migliore ai figli. Ma è una finzione. La trappola sta proprio in quel rapporto di lavoro non dipendente, che libera il datore di lavoro da ogni responsabilità e vincola invece il lavoratore a ritmi da schiavo, segnati da penali, multe, mancati guadagni, rate del mezzo da pagare. L’operaio della società industriale, nella fabbrica o nel cantiere, vendeva la sua forza-lavoro. I nuovi proletari vendono il loro tempo, ed è peggio. Non per caso la prima battaglia del movimento operaio fu sul tempo di lavoro: il primo maggio del 1886 fu indetto uno sciopero generale in tutti gli Stati Uniti per la giornata di otto ore. Finì con il massacro di Haymarket, a Chicago. Tre anni dopo la Seconda Internazionale fece di quella data, il Primo Maggio, la festa dei lavoratori. I vecchi proletari si ribellavano perché non avevano da perdere che le loro catene; i nuovi non hanno da perdere che il loro tempo di vita, e con esso le famiglie, gli affetti, ogni gioia.

Il film

Nel film di Loach, ambientato nel nord dell’Inghilterra, anche la moglie del protagonista lavora così: fa la badante, assiste anziani e malati a domicilio, viene pagata a visita da una società di servizi, più ne fa più guadagna. Una delle sue assistite, un’anziana sindacalista che era stata con i minatori negli anni ’70, allibisce quando scopre che non ha un orario fissato per contratto. Il marito, invece, ha comprato un furgone bianco, diecimila sterline a rate, per poter andare in giro a consegnare pacchi senza fermarsi mai, sotto il controllo di uno scanner satellitare — «la pistola» lo chiamano — che registra tutto, e se tarda a ripartire dopo una consegna comincia a fare bip bip, portandosi appresso nel bagagliaio una bottiglia di plastica vuota per fare la pipì quando gli scappa senza perdere tempo. Lo ha fatto per i figli, e invece è proprio questa scelta che lo rende assente, stanco, nervoso, un padre peggiore, e fa saltare gli equilibri di una famiglia fin lì unita, forte, bella. Alla fine del film i figli glielo rimproverano: we missed you, ci sei mancato. Il ragazzo adolescente è sull’orlo del comportamento antisociale, la bambina, undicenne, sull’orlo di una crisi di nervi. La moglie esaurisce le sue riserve di affetto e pazienza. E lui a pezzi, ferito, pesto, assonnato, con una costola rotta, si rimette all’alba alla guida del van cui disperatamente ha affidato la sua vita, ma che gliela sta strappando. Fasi così il capitalismo ne ha già conosciute nella sua storia, quando un salto tecnologico gli consente nuove condizioni di sfruttamento, e le usa tutte perché il profitto è la sua legge. Ma sempre la civiltà, la filantropia, la lotta di classe, la politica democratica, hanno di volta in volta trovato il modo di mitigare queste condizioni e di rimettere al centro l’uomo e la sua dignità. Questo è uno di quei momenti, ma i nuovi proletari non hanno ancora trovato il modo, l’organizzazione, i sindacati, i partiti, la cultura che possa impedirne la trasformazione in merce, per costruire un nuovo umanesimo anche nel mondo dei satellitari e del controllo da remoto. Il film di Ken Loach ha il merito di ricordare a tutti noi che nessuno è davvero libero, se intorno a lui lavorano degli schiavi.

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