Morto Gianni Celati, narratore, traduttore, viandante inquieto

di PAOLO DI STEFANO

Lo scrittore scomparso a 84 anni a Brighton, in Inghilterra, dove viveva dal 1990. Era stato anche critico, documentarista, professore. L’esordio nel 1971 con «Comiche»

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Gianni Celati (foto Ansa / Andrea Merola)

Nell’introduzione al Meridiano uscito nel 2016, Marco Belpoliti ci fa capire bene il paradosso inquieto di Gianni Celati, definendolo il più letterario degli scrittori italiani contemporanei e insieme quello che più di tutti si è divertito a fare lo sgambetto alle cerimonie della lingua letteraria, considerato che la nostra lingua letteraria è una delle più cerimoniose e insopportabili che ci siano in natura. Quel volume, di quasi duemila pagine, raccoglie una storia lunga quarant’anni, certamente una delle più coerenti e contraddittorie, ma anche delle più originali del dopoguerra. A cui va aggiunto il saggista, libero lettore-vagabondo di London, di Melville e di Poe, ma anche di Rabelais, di Stendhal, di Breton, di Céline e di Perec, l’amante di Ariosto e di Boiardo. E il traduttore di Swift, dello stesso Céline e soprattutto dell’Ulisse di Joyce, di cui vuole recuperare il profondo senso acustico-musicale molto più che le (ipotetiche) connessioni logiche.

Siamo sempre nel paradosso, con Celati, morto la notte tra domenica e lunedì a Brighton, in Inghilterra, dove viveva dal 1990, in una sorta di esilio volontario come fu quello di Luigi Meneghello, sempre comunque in fuga dalla vita verso la letteratura, estraneo al mondo che gli è toccato di vivere, un po’ come i suoi personaggi. A partire dalle strampalate figure che mise in scena nei quattro romanzi esuberanti della prima fase, cioè degli Anni 70 (da Comiche del 1971 a Lunario del paradiso del 1978): è il Celati comico che richiedeva al lettore, come scrisse uno dei suoi primi estimatori, Angelo Guglielmi, più che un’intesa intellettuale, la stessa «partecipazione fisica» che si attiva di fronte al cinema muto. Di una «lingua di pure carenze», ma in realtà iper-espressiva, parlò Calvino, suo amico e promotore editoriale presso Einaudi. E infatti si rideva come pazzi, leggendo le avventure di Guizzardi, detto Danci, un giovanotto vittima e artefice istrionico del proprio vittimismo, aspirante «rappresentante estero», ma incapace di tutto e destinato, una volta fuggito dalla casa dei genitori, a farsi bersaglio di ogni prevaricatore, pazzo, cialtrone, fantasma incontrato nella via, tra cui spiccano magnifiche donne, libidinose, violente, soccorritrici, dall’aguzzina Ida Coniglio alla diletta maestra Frizzi. C’è chi ha scritto, giustamente, che questo Celati che narra gli emarginati e i deliranti metteva insieme Pinocchio e Beckett. In realtà, Celati è un paradosso anche se osservato alla luce del neo-sperimentalismo tardivo del tempo (da lui sfiorato), accostabile solo al grande Luigi Malerba del Pataffio e de Il protagonista, e come lui, sul piano della geografia letteraria, definibile «scrittore delle pianure», cioè ispirato alla tradizione giocosa e rocambolesca dell’epica cavalleresca, o al filone dei Folengo e dei Ruzzante: esperienze di poetica orale e multilingue che poi con il concorso di Ermanno Cavazzoni (ma anche di Maurizio Salabelle, Ugo Cornia, di Stefano Benni, di Paolo Nori, di Daniele Benati) daranno vita a una notevole iniziativa editoriale ormai pressoché dimenticata come la rivista «Il semplice», edita da Feltrinelli tra il 1995 e il 1997.

Nato a Sondrio nel 1937 da famiglia ferrarese, la madre sarta e il padre intemperante impiegato della Banca d’Italia ma sostanzialmente perditempo e attaccabrighe, dopo un’infanzia burrascosa e girovaga (che si ritrova, neanche troppo trasfigurata, nei romanzi comici), Celati si identifica negli Anni 70 con Bologna. A Bologna si è laureato con una tesi su Joyce e al Dams, dopo essersi avvicinato alle sperimentazioni teatrali di Giuliano Scabia, insegnerà letteratura inglese e americana. Sono gli anni delle traduzioni da Swift e da Céline, dei saggi di Finzioni occidentali e di Alice: «Le mie lezioni — ricordava — erano abbastanza frequentate. Molti le seguivano per passatempo, come andare a un numero di varietà; altri invece venivano per giudicare quello che dicevo secondo i canoni dell’indottrinamento politico». Il seminario su Lewis Carroll e sulla letteratura vittoriana, proprio nel momento in cui Alice era diventata il simbolo della controcultura americana, prese il volo e divenne di moda. I materiali di quel laboratorio, pubblicati da Andrea Cortellessa nel 2007, danno l’idea del lavoro politico di Celati (politica che comprendeva eros, musica, psicanalisi, cinema, teatro…) e insieme della sua estraneità rispetto a ogni cliché ideologico in voga.

La seconda fase, quella che si inaugura con gli Anni 80, cioè quella del Celati sempre più errante (verso la Francia, il Senegal, il Mali, la Mauritania, la Germania, la Svizzera), è una lunga e imprevista stagione. Sempre lo «scrittore delle pianure», ma inteso in un senso diverso e quasi il rovescio speculare del primo: abbandonata la carica ludica e stralunata, è una vena nuova che si alimenta di una malinconia, a tratti nera, sorprendente per chi conosceva Guizzardi e i suoi psicotici compagni di sventura. La sua prosa diventa quasi dimessa, breve, paratattica, cronistica, visiva e visionaria nel senso di lievemente allucinata, ma il soggetto rimane, come nell’esperienza fluviale comico-paranoica, contemporaneamente dentro e fuori dalle cose: l’ispirazione viene sempre dal camminar-vagabondare, partendo dalla Valle Padana con i racconti di Narratori delle pianure, che nel 1985 segna la svolta, fino a spingersi verso luoghi più esotici. Avventure in Africa, del 1998, è un diario di viaggio che registra il tentativo fallito di fare un documentario sui guaritori dogon subsahariani.

Vagabondare e riflettere sempre, fare del racconto di viaggio un racconto filosofico che sembra mirare alla descrizione talvolta cedendo la voce e lo sguardo a personaggi sperduti e improbabili incontrati nel cammino, e fuoriuscendo dunque dalla descrizione e persino dalla letteratura. Dopo le Quattro novelle sulle apparenze, il titolo più significativo e autorappresentativo è Cinema naturale, del 2001, che contiene nove racconti scritti nell’arco di un ventennio e continuamente riscritti: «Per vedere che cosa succede. Perché scrivendo o leggendo dei racconti si vedono paesaggi, si vedono figure, si sentono voci: è un cinema naturale della mente...». Nel 1981 Celati aveva incrociato il lavoro del fotografo reggiano Luigi Ghirri, che sarebbe diventato sua «figura guida», amico e compagno di avventure narrative, visive, intellettuali, di discussioni, ritratti e autoritratti. All’amico, morto improvvisamente nel 1992, Celati avrebbe poi dedicato un film tra «fotografia e amicizia».

3 gennaio 2022 (modifica il 3 gennaio 2022 | 21:23)