È morto Pino Roveredo, scrittore degli ultimi e degli emarginati

di CRISTINA TAGLIETTI

Autore triestino di narrativa e di teatro, nel romanzo d’esordio «Capriole in salita» raccontò la sua vita tra alcol, carcere e manicomio. Con i racconti di «Mandami a dire» vinse il premio Campiello nel 2005, a pari merito con Antonio Scurati

È morto Pino Roveredo, scrittore degli ultimi e degli emarginati

Pino Roveredo era nato a Trieste nel 1954

L’emarginazione, la malattia mentale, l’alcolismo, l’esistenza reclusa o randagia di personaggi ai confini della società e della vita stessa. Pino Roveredo (qui sotto, foto di Luigi Costantini/Ap), scrittore triestino morto ieri a 69 anni dopo una lunga malattia, ha raccontato con l’autenticità data dall’esperienza vissuta i territori di chi, «cullandosi sopra l’ altalena del tempo, fatica il giorno per guadagnarsi la notte». Nato da genitori sordomuti e poverissimi nella Trieste del secondo dopoguerra, 1954, Roveredo aveva passato gli anni dell’infanzia in collegio, in un regime di soprusi e maltrattamenti, a cui, dopo la fuga, erano seguiti l’alcolismo, la prigione e poi il manicomio. In quell’esperienza aveva messo radici il primo doloroso romanzo uscito nel 1996 da Lindt poi pubblicato dalla Bompiani di Elisabetta Sgarbi, Capriole in salita, che gli diede una certa notorietà e la possibilità di una seconda stagione di vita, dominata dalla scrittura.

A quell’esordio (anche se, scrisse Claudio Magris, «più che esordire Roveredo è entrato di forza nella letteratura»), erano seguiti Ballando con Cecilia, un viaggio nell’ombra di una novantenne che ha trascorso 60 anni in un ospedale psichiatrico dove è rimasta anche quando, con la riforma Basaglia, quel suo universo chiuso si è aperto, e «Mandami a dire» con cui, nel 2005, vincerà , a pari merito con Antonio Scurati su un podio tutto Bompiani, il Premio Campiello che ieri lo ha ricordato oltre che «per la sua penna ispirata, per la caratura morale».

Era lo stesso Roveredo a spiegare il senso di un percorso scandito da un diverso rapporto con il dolore: prima la sofferenza come ragione per continuare sulla strada dell’autodistruzione, poi ragione di vita. Dopo Mandami a dire che raccoglie quattordici storie, alcune fulminee, di sofferenza e speranza, in cui l’equilibrio dello stile evita ogni eccesso patetico, Roveredo ha scritto molto — racconti, romanzi e testi teatrali — non sempre con la stessa asciutta ispirazione degli esordi, ma creandosi un suo spazio nel mondo letterario, facendo sentire, e ascoltare, la sua voce anche nelle dinamiche della società (era volontario, operatore di strada, educatore e, dal 2014 al 2018, garante per i diritti dei detenuti del Friuli Venezia Giulia) e della politica (nel 2021 si era candidato a consigliere comunale a Trieste, con una lista civica).

Nei libri seguiti a Mandami a dire, tutti pubblicati da Bompiani, Roveredo ha continuato a frequentare, con registri diversi, i territori dell’autobiografia, i temi dell’emarginazione e del male di vivere. Come in Caracreatura, dove una madre che si è lasciata alle spalle un passato difficile, si trova di fronte alla tossicodipendenza del figlio, o come in M io padre votava Berlinguer , una sorta di lettera al genitore operaio-calzolaio, scomparso nel 1981, compreso, anche nelle sue debolezze, dopo la morte. O ancora come nei racconti di Mastica e sputa, titolo preso a prestito da una canzone di un’altra grande voce degli esclusi, Fabrizio De Andrè. L’ultimo romanzo,I ragazzi della via Pascoli , è dedicato ai lettori più giovani e reinventa la storia di Pino, pescato in un sacco dal padrone dell’Universo e spedito con il gemello Rino a Trieste, nella «galleria del silenzio», in una casa umile dove ci si arrangia con pane, patate e fantasia, e dove, insieme all’affetto, regna il linguaggio dei segni, mentre fuori imperversa il rumore.

© RIPRODUZIONE

21 gennaio 2023 (modifica il 21 gennaio 2023 | 17:55)