23 giugno 2020 - 14:44

Mario Corso, in centinaia al funerale del giocatore dell’Inter: «In paradiso derby spettacolare con Pierino Prati»

L’ultimo saluto alla Basilica di Sant’Ambrogio a Milano per Mario Corso, scomparso lo scorso 20 giugno all’età di 78 anni. Monsignor Carlo Faccendini: «Era chiamato il “piede sinistro di Dio´, un nome che gli diede il ct della Nazionale di Israele»

di Andrea Galli

Mario Corso, in centinaia al funerale del giocatore dell'Inter: «In paradiso derby spettacolare con Pierino Prati»
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Il suo funerale, un funerale da lui. Discreto. Nei modi (un applauso leggero all’ingresso nella basilica di Sant’Ambrogio), nei gesti (sul registro dei presenti scritte così: «Ciao campione»), nella partecipazione (un centinaio di tifosi, in maggioranza anziani, spesso molto anziani). Poi, all’inizio e alla fine, insomma ininterrottamente com’era fisiologico che fosse, la sua Inter: le due magliette nerazzurre numero 11 sulla bara di Mariolino Corso, spentosi il 20 giugno a 78 anni dopo una breve malattia conseguenza di un grave scompenso cardiaco.

Mario Sconcerti, sul Corriere, all’indomani della scomparsa, aveva rilevato come Corso fosse stato dimenticato, anche dalla città, certamente; e di nuovo sul Corriere, Massimo Moratti aveva raccontato, forse dando un’indiretta spiegazione, di chi era stato, fino agli ultimi giorni, Corso: geniale in campo, schivo fuori, e mai, mai ruffiano; uno che quando da ragazzino disputò una partita all’Arena, nel campionato riserve, partita che di lì a subito gli fece guadagnare l’accesso diretto in prima squadra, tanto era forte e l’avrebbe capito anche uno ignorante di pallone, si trovò a dribblare e contro-dribblare gente più esperta; filava imprendibile ma non c’era l’arroganza, lo sfottò, non c’era l’irriverenza. Danzava perché gli veniva naturale, punto. C’era invece, come ha detto Moratti, perfino un certo fastidio personale nell’essere così sfuggente e ridicolizzare il prossimo.

Sedie distanziate sul sagrato, e lontananza d’obbligo anche all’interno della basilica, dove arrivano gli attuali vertici dell’Inter, ex presidenti, ex giocatori come Evaristo Beccalossi e Beppe Bergomi, ed ex sempre-presenti sugli spalti del Meazza oggi nonni e mano nella mano col nipotino, rigorosamente in maglietta nerazzurra, pace se non originale, una di quelle comprate allo stadio che cacciano un caldo terribile, figurarsi adesso, alta temperatura, afa, umidità. Che importa. Siam qui per il Mariolino.

Ci sono anziani dalla scarsa dimestichezza col cellulare che provano a scattare foto, non ci riescono e chiedono intorno come si faccia; ci sono ultrà della curva che dedicano a Corso uno striscione: «Con l’Inter nel cuore fino all’ultimo, ciao Mariolino».

Dicono quelli della generazione che l’hanno visto giocare: «Un paragone? Non ce ne sono stati altri come lui». E l’unicità di Corso è stata anche nella longevità da interista, oltre cinquecento presenze; una carriera cristallina e vincente, penalizzata in Nazionale un po’ per la concorrenza e scelte a lui sfavorevoli per partito preso, un po’ per quella sua capacità di comportarsi come gli girava, ed esempio eclatante è il gesto dell’ombrello che costò un Mondiale. Un funerale strano, perché bisogna sì esserci ma ci si avvicina alla Basilica guardinghi, osservando intorno, puntando una sedia, disinfettandosi le mani all’ingresso una, due, tre volte.

Dice monsignor Faccendini nell’omelia, rubando sorrisi: «Voglio ricordare anche Pierino Prati, mi immagino stiano rinnovando in paradiso un derby spettacolare. Ha giocato in una squadra da leggenda, i nomi venivano imparati come si imparavano le preghiere o le poesie di Pascoli. Era chiamato il “piede sinistro di Dio”, un nome che gli diede il ct della nazionale di Israele, uno che insomma si intendeva di piedi e di Dio».

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