24 agosto 2019 - 23:30

La partita si gioca sul premier
I 5 Stelle insistono ma c’è la carta Fico

Ieri sera intanto è saltata la telefonata tra i due leader, Zingaretti e Di Maio. Ed emerge netto il nome del presidente della Camera

di Tommaso Labate

La partita si gioca sul premier I 5 Stelle insistono ma c'è la carta Fico
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ROMA L’imponderabile succede alle nove di sera, quando una fiammata riaccende una partita che pareva destinata a morire di tatticismo. Perché non solo riparte prepotentemente il treno del governo Pd-M5S, che solo qualche ora prima sembrava destinato a un binario morto. Ma anche perché, sul filo dei contatti incrociati dei rispettivi pontieri, emerge con nettezza il nome di Roberto Fico. Il presidente della Camera passa, nel giro di pochissimo, dalle retrovie alla pole position del toto-premier. Tutto appeso ancora a tantissimi punti di domanda, ovviamente. Due su tutto. Di fronte a una candidatura «istituzionale» come quella del presidente della Camera, può il Partito democratico permettersi di dire no in nome della discontinuità rispetto al governo precedente? No, è la risposta; non foss’altro perché di quel governo, e soprattutto di Matteo Salvini, Fico è sempre stato un oppositore.

La seconda domanda, invece, riguarda Luigi Di Maio. Per quanto Fico guidi l’opposizione interna, può il capo politico del Movimento 5 Stelle mettersi di traverso rispetto all’eventualità storica che un iscritto (tra l’altro della prima ora) diventi il capo del governo? Difficile, molto. La riaccensione dei motori del treno giallorosso e la pole position della candidatura Fico sono due degli effetti collaterali dello «schiaffo di Biarritz», come dal Pd — ironizzando sull’analogia con lo «schiaffo di Anagni» reso celebre da un film di Verdone — hanno ribattezzato la mossa di Giuseppe Conte dal G7, che ha ridotto al minimo la capacità del forno con la Lega. Al minimo vuol dire quasi vicino allo zero, visto che i trattativisti del M5S avvertono gli omologhi del Nazareno che «quella strada, ormai, non avrebbe neanche i numeri per mettere su una maggioranza in Parlamento». Di sicuro non a Palazzo Madama, dove una pattuglia di almeno dodici pentastellati ha già minacciato — di fronte al riavvicinamento con Salvini — di formare un gruppo autonomo e votare contro.

Difficile dire se, alle nove di ieri sera, Di Maio senta di essere finito in un vicolo cieco o ci sia finito per davvero. Di certo c’è che Nicola Zingaretti, che per l’occasione ha trasformato il Nazareno in un gabinetto di crisi aperto anche nel weekend, aspetta una telefonata del capo politico del Movimento Cinque Stelle che è in programma. Ma non arriva. Più o meno negli stessi minuti, come a voler confondere le acque, a Ravenna Enrico Giovannini — altro papabile per il dopo-Conte, di area pd ma molto gradito a Grillo — decide in extremis di annullare la sua partecipazione alla Festa dell’Unità.

Scontati il no del Pd al Conte bis, come scontato ovviamente anche il fuoco di sbarramento rispetto all’ipotesi che il governo venga guidato da Di Maio in persona, l’uscita dai blocchi di Fico sembra la mossa destinata a scandire l’ultimo miglio della partita. In un senso o nell’altro. Difficile che il Pd possa mettere veti sulla riconferma del capo politico dei M5S al ruolo di vicepremier, magari con una delega pesante. Ai democratici, ovviamente, toccherebbe spendere il nome di uno dei suoi «pezzi da novanta» per affiancarlo, sempre come numero due dell’esecutivo. In nome della discontinuità col governo precedente, dopo l’esperienza Salvini, è molto probabile — per esempio — che per la casella del Viminale venga scelto un profilo come quello di Franco Gabrielli. Rimangono i punti di domanda, ovviamente. Ma una strada adesso c’è. Non è escluso che porti a un governo che si pone come scopo la legge elettorale proporzionale, che riporterebbe Pd e M5S al tavolo subito dopo le elezioni. Così come non è escluso che il governo parta per durare. Quanto, chi può dirlo.

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