14 luglio 2019 - 22:24

Carlton Myers: «Il razzismo in Italia c’è, ma chi arriva si deve sforzare»

il campione di basket parla della conversione religiosa, del rapporto con compagni e allenatori, di integrazione: «Sulle regole Salvini ha ragione, bisogna sapersi integrare»

di Flavio Vanetti

Carlton Myers Carlton Myers
shadow

Segnava tanti canestri, ma era discusso: un personaggio, in ogni caso. Oggi Carlton Myers dirotta dal basket, anche se sul piano professionale lo coinvolge ancora. La sua vita è però diventata prima di tutto un viaggio a fianco del Signore: «L’ho chiamato e mi ha aiutato». Parla della conversione assieme ad altri temi: il razzismo, la violenza, questo mondo troppo «social», la multietnia, l’impegno per San Patrignano, la musica che ha nel sangue. Fidatevi: è un’esperienza dialogare con «Carletto», il ragazzo di colore che fu l’alfiere italiano ai Giochi 2000.

Partiamo proprio da qui. Era giusto affidarle la bandiera?

«Dal punto di vista sportivo c’erano tanti più meritevoli di me. Ma era un periodo particolare e si lanciavano i primi messaggi per un Paese multietnico».

Una scelta furba, sfruttata ad arte?

«Non credo che qualcuno ne abbia approfittato, ma io pensavo solo all’occasione offertami dal Coni. Il presidente Petrucci aveva ragione: la Nazionale è tutto. Oggi di me ricordano la vittoria all’Europeo 1999, il ruolo avuto a Sydney e il record di 87 punti in campionato. Ma il primato viene dopo le imprese azzurre».

Ha trovato una dimensione da campione anche nella vita?

«Ammesso sia stato un primattore nello sport, nella vita la conversione a Cristo mi ha dato certezze che nel basket non ho trovato. Posso definirmi campione in questo senso, grazie a Dio? La risposta è sì. Che cosa ho di diverso dal Carlton cestista? La pazienza».

La sua carriera in retrospettiva: come la vede?

«I momenti difficili superano quelli belli. Sto leggendo “Open”, il libro di Andre Agassi. Dice che il dolore della sconfitta dura più della gioia della vittoria: concordo, spesso rammento le finali perse più che i giorni dei successi. Ma le sconfitte mi hanno reso più forte».

Di che cosa è più orgoglioso e che cosa, invece, non rifarebbe?

«La capacità di non mollare è un dono ricevuto e mi rende fiero. Che cosa non rifarei? Non metterei becco nelle scelte societarie. Tra l’altro l’unica volta che non l’ho fatto abbiamo vinto lo scudetto…».

Sulla fedeltà alla Fortitudo Bologna lei ha costruito un’immagine. Ma nello sport è sempre più raro onorare una bandiera.

«Se nutro sentimenti positivi verso una realtà, non cambio. Tra l’altro sono abitudinario: stessi ristoranti, stesse palestre... La Fortitudo, con la sua mentalità da battaglia, la sentivo mia perché rispecchiava il mio carattere».

All’epoca disse che l’Italia era razzista. Lo è pure oggi?

«Già il fatto che si discuta se sia giusto nominare Balotelli capitano della Nazionale di calcio spiega che non è cambiato nulla: anche per un ragazzo di colore dovrebbe essere la normalità ambire a quel ruolo».

Multietnia e migranti: un ostacolo o un’opportunità?

«Ho un doppio approccio alla questione. Chi giunge da noi può portare una ricchezza che ignoriamo. Però d’altro canto sono rigido: se scappi e cerchi tranquillità devi saperti integrare, sennò torni da dove sei venuto».

Il vituperato Matteo Salvini, allora, qualche ragione ce l’ha.

«Sono per il rispetto delle regole, come sostiene lui. Poi il modo in cui lo esterna, ecco, non è il più delicato di questa Terra».

Padre caraibico emigrato in Inghilterra nei primi anni 60, madre italiana. Quanto è bello il sangue misto?

«Tanto. Ho vissuto a Londra fino a otto anni, ho la ricchezza di due culture differenti: mi regala vedute più ampie».

Però è legato a Rimini e alla Romagna.

«Mamma non parlava inglese e le prime parole udite erano in italiano. Ho un aplomb anglosassone, ma so essere simpatico con la mia vena da Adriano Celentano».

Le piace l’Italia di oggi?

«È un bel Paese, ma si sta perdendo. Sul piano del lavoro ci sono troppe difficoltà: a volte bisogna cedere ai compromessi — cosa che non faccio — e non c’è meritocrazia».

Meglio oggi, ieri o domani?

«Sul domani non mi pronuncio. Ieri si stava meglio, ma quella felicità era effimera. Però gli anni 80 e 90 erano spensierati e c’era benessere: oggi la musica è cambiata».

Con Bogdan «Boscia» Tanjevic, ex c.t. azzurro, ha avuto un rapporto tanto intenso quanto conflittuale.

«Conflittuale è un eufemismo. Ho avuto scontri titanici, con Andrea Meneghin spesso in mezzo a dividermi da lui. Boscia in un time out agli Europei mi aggredì verbalmente, forse avrebbe voluto farlo fisicamente. Ero a un bivio: o saltargli al collo o accettare il rimprovero. Scelsi la seconda opzione e fu la svolta».

Non ha scherzato nemmeno con Valerio Bianchini ed Ettore Messina.

«Valerio mi ha sempre stimolato, anche in modo pesante. Ma era Bianchini, aveva carisma e poteva permetterselo. Quanto a Messina, dopo una partita ribaltò tutta la Nazionale. Ma aggiunse: “Myers, che passa per lavativo, s’è dimostrato l’unico vero”. Quella frase mi colpì: a quei tempi facevo l’originale, portavo l’orecchino…».

La Nba le è mai stata in testa?

«No, perché l’unica vaga proposta, nel 1994 dai New York Knicks, non mi convinse. Rimini mi aveva rivoluto in serie A2 ed ero contento: Bianchini si infuriò per il mio rifiuto, ma io sono sempre rimasto legato alla Romagna. Invidio in senso positivo i ragazzi di oggi che giocano tra i professionisti? No, anche perché ai miei tempi l’Italia aveva il secondo torneo dopo la Nba».

Oggi fa il procuratore, però dice che la categoria spesso rovina i giocatori.

«Non mi definisco un procuratore. Ho un’agenzia con un manager e un avvocato: seguiamo la LegaDue e in prevalenza giocatori italiani. Mentalmente non sono il massimo, ma qualche consiglio posso darlo. In verità sono più le strigliate che rifilo: non sono mai contento».

Lei ha studiato in conservatorio e ha nel sangue i motivi caraibici: il basket è anche musica?

«Certo: il ritmo lo trovi perfino in un pallone che rimbalza. Nigel, il secondo figlio, è un batterista: quando suona è come se maneggiasse la palla».

L’accostamento con Celentano la fa sorridere o non le piace?

«Fin da bambino mi paragonano a lui. In effetti nelle pause e nel linguaggio corporeo ricordo Adriano: mi è stato d’aiuto».

Tanjevic la riprese pure su Joel, suo primogenito…

«In quel periodo non stavo con la mia attuale moglie, ma avevamo già Joel. Boscia mi esortò a sistemarmi: “La famiglia è tutto”. Gli allenatori di un tempo si interessavano perfino di queste cose».

Europeo 1999, esordio contro la Croazia: l’Italia arriva a +18, ma nel finale perde e Myers sbaglia troppo. La squadra voleva picchiarla: se lo ricorda?

«Credo, per colpa mia, di non essere mai stato molto simpatico ai compagni. In quell’occasione lo fui ancora di meno. Quella sconfitta mi fece male, ma una delle qualità che mi ha dato il Signore è quella di non arrendermi. Contro la Bosnia reagii: un vincente è colui che non smette di lottare».

Quando dicevano che era individualista, si incavolava o rifletteva?

«Ho cominciato a riflettere quando non sono arrivati i risultati. Ho iniziato tardi col basket, avevo provato la boxe. Ho imparato da solo e mi è mancato il senso del collettivo che i coetanei hanno invece avuto. Mi arrangiavo: il mio concetto di gioco era fare canestro; poi ho afferrato che conta il gruppo».

Lei è stato oggetto di cori razzisti. Oggi per lottare contro il tifo becero si possono sospendere le partite: è giusto?

«Assolutamente sì. Accade un fattaccio? Si ferma tutto e si va a casa: lo sport è spettacolo e bisogna esserne degni».

Ha chiuso la carriera giocando una partita per la squadra di San Patrignano, comunità della quale è testimone.

«In realtà non faccio tanto, ma sono a disposizione».

Vivendo la realtà di San Patrignano quale idea s’è fatto della piaga della droga?

«Ho scoperto che coinvolge perfino gente insospettabile. Vedo comunque altri pericoli: alcool, gioco d’azzardo, ora i social network dove ci si insulta. Quando c’è stato il blackout di Whatsapp mi scappava da ridere. Pensavo: se si ritornasse a 20-30 anni fa quando non c’era nulla, riusciremmo a cavarcela? Ho il sospetto di no».

Ci parla della sua conversione?

«Nel 2000, dopo aver perso la prima partita della finale contro la Benetton, non avevo più fiducia in me stesso. Non volevo giocare gara-2 a Treviso, studiavo come defilarmi. Nel pieno della disperazione gridai a Dio: “Signore, non so se vorrai che vinca lo scudetto. Se non è nella tua volontà, lo accetto ancora; ma sappi che stavolta non ne esco”. Sono una persona concreta: per me contano i fatti. E i fatti dicono che mi recai a Treviso con uno stato d’animo diverso. Quella è stata la prima esperienza in cui il Signore mi ha ascoltato».

Oggi lei è un cristiano evangelico.

«Medito ogni mattina, ora studio i Salmi e mi interesso ai passi in cui Dio è un’ancora, un rifugio, una rocca per i momenti particolari della vita».

© RIPRODUZIONE RISERVATA
ALTRE NOTIZIE SU CORRIERE.IT