Demetrio Volcic muore a 90 anni: addio allo storico corrispondente Rai da Mosca

di Paolo Valentino, corrispondente da Berlino

Con le sue corrispondenze da Praga, Vienna, Bonn e dalla capitale dell’allora Unione Sovietica, aveva raccontato agli italiani il mondo al di là della Cortina di Ferro. Proverbiale la sua apertura dei servizi: «Fa freddo qui a Mosca»

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È morto domenica a Gorizia il giornalista Demetrio Volcic, per molti anni inviato oltre la Cortina di Ferro e storico corrispondente da Mosca. Era nato nel 1931 e il 22 novembre aveva compiuto 90 anni. Nato a Lubiana, Volcic è stato per anni il volto dei collegamenti dei telegiornali Rai dai Paesi dell’Est, da Praga, poi Vienna, Bonn e in particolare da Mosca, allora capitale dell’Unione Sovietica. Proverbiale la sua apertura dei servizi: «Fa freddo qui a Mosca»

Quella sera a Mosca, in partenza per Vienna poco prima di essere nominato direttore del TG1, mi raccontò di Sasha Bovin. Era la sua fonte al Cremlino negli anni brezneviani, poi caduto in disgrazia perché aveva osato dire a Breznev che doveva farsi tagliare le sopracciglia se voleva far colpo sulla signora Pompidou, per la quale il leader sovietico stravedeva. «La nostra amicizia era dovuta al Campari. Lo amava liscio. Veniva a casa mia alle 9, parlavamo mentre si scolava una bottiglia intera. Poi mi salutava dicendo: “Ubriaco al mattino, libero tutto il giorno”».

Era così Demetrio Volcic, che se n’è andato in punta di piedi pochi giorni dopo aver compiuto 90 anni. Maestro del dettaglio che ti apriva un mondo, artista della battuta fulminante che valeva scorte di editoriali verbosi. Rigoroso e umano. Colto e profondo come sa esserlo solo un mitteleuropeo di confine, nato a Lubiana da padre triestino e madre goriziana. Ma ironico e disincantato come soltanto un lord inglese.

Come quando prendeva in giro i colleghi che «a torto o a ragione si sentivano ascoltati», lui che il Kgb o i suoi gemellini dell’Est li aveva avuti sul serio alle calcagna, tanto che una volta a Praga gli consigliarono di smettere di far lavorare il dissidente Jiri Pelikan nella sede della Rai, «se non voleva finire come l’ambasciatore jugoslavo», spinto da un’auto in un burrone: «C’era chi non riusciva a fare sesso sapendo di essere ascoltato dal Kgb e allora partiva per Helsinki con la moglie di venerdì, faceva i propri doveri coniugali e tornava a Mosca il lunedì. Altri invece si eccitavano di questa cosa. Certo, un sesso troppo loquace non era consigliabile».

È stato molte cose Demetrio: giornalista, accademico, autore di libri importanti e di successo, senatore della Repubblica, deputato europeo. Ma soprattutto è stato un grande testimone del suo tempo, il Novecento della Guerra Fredda che pochi come lui hanno saputo raccontare dall’una e dall’altra parte della Cortina di Ferro nelle sue indimenticabili corrispondenze da Praga, Varsavia, Vienna, Bonn e Mosca. Del mondo comunista conosceva gli arcani e le situazioni, i personaggi e le macchinazioni di palazzo, cremlinologo sembrava esserlo di nascita. Lo conobbi in Russia, nel 1990, e diventammo amici quando gli raccontai che da ragazzo a mia madre che chiedeva cosa volessi fare da grande, avevo risposto: voglio fare Volcic. Da quel momento, le telefonate con lui diventarono un rito, per me indispensabile a leggere cosa stesse succedendo nel caos creativo della Mosca di Gorbaciov. «Prima non sapevamo niente e capivamo tutto, oggi sappiamo tutto e non capiamo niente. Siamo stati qui decenni e non è successo nulla, siete arrivati voi e tutto è esploso», ripeteva affettuosamente burbero a me e Enrico Franceschini, che eravamo fra i più giovani del gruppo italiano.

Demetrio era capace di riassumere il senso di una notizia in una battuta al fulmicotone. Come la sera del fallito golpe dell’ottobre 1993, già direttore del Tg1, quando iniziò il suo editoriale dicendo: «I capi della rivolta Rutskoi e Kashbulatov sono arrivati nella prigione di Matrosskaya Tishina alle 7 di sera. Troppo tardi, il rancio era già stato distribuito. Sono rimasti senza cena». Oppure rendere un’epopea con un tocco impressionista: «Quella sera, nel 1968, eravamo in un locale di Varsavia e c’erano tutti i leader dei Paesi fratelli. Il Pci aveva mandato Pajetta e i polacchi gli misero dietro la capitana. Ma Pajetta sapeva chi era e le disse tutto il male possibile dei suoi dirigenti. La ragazza allora si alzò e andò a sedersi al tavolo del bulgaro Jivkov. Ballò per tutta la sera con lui, che gli zompava sui piedi e guardava l’italiano con aria trionfante. Mentre Pajetta gli gridava: «Servo, figlio di puttana». La terra sia lieve a un maestro. Addio Demetrio.

5 dicembre 2021 (modifica il 5 dicembre 2021 | 15:48)