1933-2018
Philip Roth, la bandiera sull’Oceano
Il ricordo di Marco Missiroli
Un autore italiano, la leggenda della letteratura appena scomparsa
Cronaca di un incontro mancato tra uno scrittore e il suo mito
A lungo mi sono messo in testa di intervistare Philip Roth. Ogni volta che ero a New York pensavo a lui più che alla Statua della Libertà.
Mi dicevo che il mio hotel distava tot chilometri dal suo appartamento dell’Upper West Side, che bastava una mezz’ora in taxi o un’ora a piedi per raggiungerlo, magari suonare il campanello, farmi mandare al diavolo, sostare all’entrata in attesa che Roth uscisse per mangiare qualcosa, intercettarlo mentre fa la spesa e cominciare a conversare tra gli scaffali. Erano elucubrazioni sporadiche, ho sempre avuto in testa l’accorgimento che gli scrittori ammirati vanno tenuti lontani. Mai incontrarli. Mai parlarci. Potrebbero deludere e mutare l’atmosfera che conserviamo nei loro confronti.
Morto Philip Roth, grande voce d?America
Un giorno, mentre facevo ricerche su Milan Kundera, un giornalista francese mi disse di stare attento anche all’effetto-Medusa: guardare il nostro idolo in carne ossa avrebbe rischiato di pietrificare non solo l’amore per lui, ma anche i sentimenti che i suoi libri ci hanno provocato. L’insostenibile leggerezza dell’essere che diventa di colpo un romanzo sciatto. La festa dell’insignificanza che assume d’emblée connotati retorici. Nomino Kundera perché era amico di Roth, e forse non è un caso è l’altro artista che avrei voluto incrociare. Alla fine il giornalista francese mi diede il nome del bistrot a Parigi che Kundera frequentava, mi avvicinai una volta, rinunciai.
Avevo imparato la lezione anche con Roth? La scorsa estate ero al confine con il Connecticut, sapevo qual era il paesino dove lo scrittore di Newark risiedeva nella bella stagione, sapevo qual era la sua casa, avevo chiesto a persone che lo conoscevano di avere una corsia preferenziale, ma lui non aveva accettato. Se avesse accettato, sarei andato? Avrei suonato il campanello e avrei atteso sulla soglia, con tutte quelle domande, con tutte queste domande, con il fardello della mitizzazione che mi annacquava le meningi, pronto a balbettare e ad annoiare chi mi aveva fatto saltare tra le pagine di una trentina di libri? E se invece avessi avuto io, un contraccolpo? Se quell’irresistibile canaglia di Philip, si fosse rivelata un tenero agnellino?
Me ne andai nel Maine, a mangiare crostacei a buon mercato. Con me avevo Il teatro di Sabbath, portato per avere un autografo. Rilessi più volte quella scena, in cui Mickey Sabbath torna dove è cresciuto, in Jersey, davanti all’oceano. Va a casa del cugino, e nella credenza trova una vecchia scatola che contiene alcuni effetti personali del fratello morto. C’è anche la bandiera statunitense che ha ornato la sua bara. Mickey la prende, raggiunge l’oceano e ci si avvolge.
È una scena che non mi lascia mai. Chi l’ha scritta era in Connecticut in una casa di campagna, o a Manhattan, in un appartamento nell’Upper West Side: la mia letteratura aveva un indirizzo e io avrei potuto raggiungerlo. Ora non più.
Ma Mickey Sabbath è lì, con la sua bandiera, sempre. E questo è tutto.
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