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Lo scudetto geopolitico del Napoli

Un po' in tutto il mondo si sta parlando del terzo scudetto del Napoli. I colori azzurri si ritrovano sui quotidiani ovunque, con scene di enclavi partenopee che festeggiano ogni dove, da Manhattan alla Torre Eiffel, e le consuete immagini di una Napoli in festa, come neanche a Capodanno.

Una notizia globale, nonostante il Napoli, la squadra che amo e tifo, non sia un blasone come il Real Madrid. Come mai questo successo, questa simpatia generalizzata?

In primis, è la vittoria del calcio-identità. Il calcio nasce come 'fede', rito popolare e collettivo, campanilismo esasperato. Un processo spontaneo e dal basso, di cui si beneficiano gli stessi Stati, con i processi di "nation building" che coinvolgono il gioco del calcio, come raccontano Alessio Postiglione, Narcis Pallarés e Valerio Mancini nel loro libro, appena uscito, "Calcio, politica e potere".

Questo rapporto viscerale viene spezzato in Occidente con la commodificazione, la trasformazione del calcio da rito collettivo dei ceti subalterni, che si officiava in pub e stadi-bettole, a consumo individuale borghese da fruire in stadi-centri commerciali o, in solitaria, attraverso la tivù. Il primo pubblico, legato al territorio, viene rimpiazzato dallo spettatore globale e globalizzato, che essenzialmente espropria i tifosi del proprio vessillo. Con la crisi dello Stato nazione, si impone un processo di deterritorializzazione del calcio, e il tifoso globale di Pechino diventa più importante perché magari più numeroso di quello 'autoctono', e spesso la stessa proprietà è straniera. Legata al fondo sovrano di qualche Paese del Golfo che utilizza il calcio come brand e strumento di soft power. La società tecnocratica, come desacralizza la società, sempre più secolare, uccide un'altra fede: quella calcistica. A Napoli tutto questo non avviene. E l'arcaicità della città, la resistenza ai trend globali e alla modernità fanno sì che la squadra diventi una roccaforte del calcio identitario, stupendo il mondo per la profondità di un rito antico. In un Occidente in cui la tecnica ha rimpiazzato il mito dovunque.  Tale caratteristica di Napoli, fra l'altro, non avviene in contraddizione con il nuovo mercato internazionale del calcio, ma in una sintesi. Nessuno potrebbe ritenere la SSC Napoli una attività imprenditoriale antica o imperfetta. Il presidente del Napoli ha costruito una squadra fatta di solidi fondamentali finanziari. Ne ha fatto un brand globale. La capacità del Napoli di unire una moderna società di imprenditori, con una antica comunità di popolo può essere un valore aggiunto, da non sottovalutare. 

Gli altri due elementi che hanno creato questa attenzione globale verso la città sono Maradona e la diaspora napoletana nel mondo. 

D10S ha contribuito a questa natura duplice della squadra: mito e brand. Il Napoli non ha vinto come il Barcellona o il Milan, ma essere la squadra di Diego ha elevato per sempre il suo standing. Anzi, proprio la narrazione di maudit di Maradona fa sì che Napoli possa essere un brand globale, nonostante i tanti problemi della città. Questi elementi non sono in contraddizione, ma si completano. Come nell'epopea di Diego.

La diaspora napoletana e italiana nel mondo sono infine il grande asset per il quale il calcio è un potere globale. Un valore aggiunto che noi non sfruttiamo adeguatamente, da italiani. 

Da New York a Buenos Aires, l'Italia si proietta con i suoi oriundi nelle Americhe. Ci sono cittadini italiani che magari siedono nelle più importanti istituzioni nordamericane, e tutto il Sud America è ugualmente strategico per tanti fattori. Abbiamo perfino deputati eletti lì, che spesso parlano un italiano a stento. Cosa facciamo per trasformare questo legame comunitario di affetto, che oggi si tinge di azzurro, in un asset strategico dell'Italia? Niente. Una potenzialità inespressa che potrebbe trasformare il folklore partenopeo in una leva geopolitica.

Allora, auguri Napoli. Augurandoti di vincere anche quello scudetto geopolitico, che è nelle nostre possibilità, e che non dovremmo fallire.

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