Djokovic, vincente senza bellezza che adesso può perdere tutto

di Sandro Veronesi

Lo sport balcanico ha una tradizione molto più estetica che vincente; Novak Djokovic al contrario ha sempre puntato sulla solidità per vincere. Ma per paura di corrompere il corpo con il vaccino ha tirato fuori da esso il peggio di sé. E può perdere tutto

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«Umirati u lepoti», dice un antico adagio balcanico che aiuta a comprendere l’attitudine tragica che accompagna la storia del popolo serbo: «morire nella bellezza». Soprattutto nello sport, questa frase è la carezza che accompagna una tradizione molto più estetica che vincente — nel calcio, nel basket, negli scacchi.

Dragoslav Šekularac, detto Šeki, il Garrincha serbo degli anni 50 e 60, e Dragan Dzajic, leggendaria ala sinistra della Stella Rossa di Belgrado degli anni 60 e 70, sono l’emblema del calcio che muore nella bellezza: sublimi per tecnica e inventiva, fuoriclasse ammirati in tutto il mondo, hanno mietuto successi in patria ma fuori di essa non sono mai riusciti a vincere niente: solo una finale persa contro l’URSS alle Olimpiadi del 1956 per il primo, e una finale persa contro l’Italia agli Europei del 1968 per il secondo. Eppure Pelé, nello stupore della federazione brasiliana, la sua ultima partita con la maglia della Nazionale, al Maracanà, il 18 luglio del 1971, volle giocarla contro la Jugoslavia di Vujadin Boskov: era la squadra avversaria che più si avvicinava alla sua idea di calcio. La partita finì 2-2, Dzaijć segnò, Pelé no, e i due alla fine della partita si scambiarono la maglia.

Troppi sono i giocatori serbi di pallacanestro che hanno incarnato lo stesso ideale e conosciuto lo stesso destino, anche solo elencarli porterebbe via tutto lo spazio che ho a disposizione. Negli scacchi la scuola jugoslava è stata la sola che nel dopoguerra abbia saputo contrastare quella sovietica, e i suoi due rappresentanti d’eccellenza sono stati Svezotar Glicorić e Ljubomir Ljubojevic: il primo passato alla storia per la sua massima «Io gioco contro i pezzi», che negava ogni influenza della psicologia sulle partite di scacchi, e il secondo detto «Il barbiere di Belgrado» perché massacrava gli avversari con una finezza tale che sembrava usasse il rasoio. Entrambi morivano e uccidevano nella bellezza, ma entrambi, malgrado il punteggio altissimo conquistato in carriera, sono rimasti tutta la vita a sognare anche solo una finale del Torneo dei Candidati, che non riuscirono mai a disputare.

Novak Djokovic è sempre stato l’opposto. Alla bellezza ha sempre rinunciato, sostituendola con una disumana solidità fisica e psicologica. Se Federer, magari, può dire che non gioca contro gli avversari ma contro le palline, lui, al contrario, ha sempre mirato a schiantare mentalmente i giocatori che trovava di là dalla rete. La messe di vittorie e di record che ha fatto registrare hanno dato ragione a lui, nel tradimento che ha sistematicamente messo in atto nei confronti della sua tradizione. La capacità di tenuta nello sforzo psicofisico ha fatto di lui il giocatore capace di resistere al numero 1 del ranking mondiale più a lungo di tutti gli altri. Il cedimento strutturale di questi ultimi mesi è probabilmente la conseguenza di quello sforzo immane, e adesso Djokovic si trova a un passo dalla morte (sportiva), lontano mille miglia dalla bellezza.

Il Vangelo di Marco (7, 14-15) riporta questo insegnamento di Gesù: «Ascoltatemi tutti e intendete bene: non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa corromperlo; è ciò che esce da lui che lo corrompe». Bastava un prete che gli spiegasse bene questo passo, e Djokovic avrebbe potuto evitare la batosta che, a 34 anni, dopo aver perso gli ultimi due tornei individuali disputati (Giochi Olimpici e US Open) nonché la Coppa Davis all’inizio di dicembre, potrebbe porre fine alla sua storia di vincente. Per paura di corrompere il proprio corpo facendovi entrare un vaccino, ha fatto uscire da esso tutto il peggio che un uomo possa mostrare di sé: arroganza, protervia, mendacia, superficialità, egotismo, sprezzo delle regole.

Ora tutto questo lo schiaccia, rendendogli molto più difficile di un mese fa fare la cosa giusta; poiché se un mese fa bastava dire «Dato che non intendo vaccinarmi, non posso venire in Australia a difendere il titolo conquistato l’anno scorso, lo stabilisce una legge che considero ingiusta ma che pure rispetto», oggi deve dire «la lezione che ho ricevuto mi ha aperto gli occhi, mi scuso con tutti per il comportamento inqualificabile che ho tenuto in queste settimane, mi considero rinato e spero che questo mi renda degno di continuare la mia carriera». Niente di meno di questo potrà salvarlo. E, magari, circondarsi di persone diverse, che sappiano consigliarlo meglio — ad esempio di non mettersi de capoccia contro il Paese del mondo più violentemente duro e sordo a qualunque ragione nel regolare l’ingresso degli stranieri entro i propri confini. Lui, così orgoglioso, e così orgogliosamente serbo, ma anche così lontano dall’orgoglio serbo di morire nella bellezza, non può più permettersi di sbagliare una mossa, d’ora in poi, se non vuole rovinare tutto quello che ha conquistato andando a morire nella monnezza .

16 gennaio 2022 (modifica il 17 gennaio 2022 | 15:36)