Usa-Cina: Taiwan e i pericoli non visti

L’uscita, netta, di Joe Biden su Taiwan ha suscitato la dura reazione di Pechino, ma ha anche spiazzato la politica americana e la comunità internazionale. Giovedì sera il presidente ha partecipato a un incontro con il pubblico organizzato dalla Cnn a Baltimora. Il tema principale era la manovra economica, in difficoltà al Congresso. Ma è bastata la domanda posta da uno studente del Connecticut per dettare i titoli di apertura dei media americani. «Presidente che cosa farà se la Cina dovesse attaccare Taiwan? Ordinerebbe un’azione militare?» Biden ha risposto due volte «sì», spiegando: «Abbiamo assunto un sacro impegno per difendere Taiwan».

Viene naturale chiedersi se il leader americano abbia fatto questa dichiarazione di proposito o se, semplicemente, sia stato un errore, una scivolata nella comunicazione. Propendiamo per quest’ultima ipotesi, se non altro perché ieri prima la Casa Bianca poi il Segretario alla Difesa, Lloyd Austin, si sono affannati a devitalizzare le parole di Biden: «La nostra posizione su Taiwan non è cambiata. Siamo per lo status quo».

C’è, poi, la sostanza. Questa Amministrazione ha fatto del rapporto con la Cina un elemento decisivo non solo per la politica estera, ma anche per la definizione della propria identità politica interna, della propria «missione storica». L’America deve adottare riforme radicali per tenere il passo con il grande avversario asiatico.

In questo quadro si inserisce il «dossier Taiwan», per decenni una specie di vulcano spento negli equilibri mondiali: la condizione ideale per tutti i presidenti americani, compreso quello attuale. Senonchè Biden deve fare i conti con le ambizioni e i piani di Xi Jinping. Il presidente cinese è determinato a ricondurre l’Isola ribelle sotto la sovranità di Pechino.

Washington è in imbarazzo e l’imbarazzo si sta gradualmente trasformandosi in difficoltà politica. In questi nove mesi la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato hanno provato a convincere il presidente cinese ad aprire un negoziato globale, per verificare, anche per sottrazione, su quali temi ci possa essere un’intesa. La lista è lunga: climate change, pandemia, commercio, cyber security, terrorismo internazionale. Ma i segnali sono contraddittori. Da una parte (15 settembre) gli americani annunciano un accordo anche militare con Australia e Regno Unito (l’Aukus). D’altra (22 settembre) Biden si presenta all’Assemblea delle Nazioni Unite e dichiara solennemente di «non volere una guerra fredda con Pechino». Nei primi giorni di ottobre Xi Jinping spedisce 156 caccia a sorvolare lo spazio aereo limitrofo a Taiwan. Ed eccoci a l’altro ieri, con la battuta di Biden e l’esplosiva audizione al Congresso di Nicholas Burns, nominato ambasciatore a Pechino. Burns ha detto che bisognerebbe fornire «copertura nucleare» a Taiwan , aggiungendo che la Cina è la «minaccia numero uno» per l’America.

Il vero problema è che la posizione tradizionale degli Stati Uniti sul dossier Taiwan-Cina posa su basi storiche ormai logore. Gli Usa hanno riconosciuto la Repubblica Popolare cinese nel 1979. In quello stesso anno, nasce la «dottrina della strategica ambiguità», fissata in una legge che prevede, tra l’altro, la fornitura di armi e la difesa dell’Isola. La strategia di Xi Jinping mette in crisi questo schema, perché, alla fine costringerebbe Washington a scegliere tra la difesa di Taiwan e la guerra, più o meno «fredda» con la Cina.

A Baltimora il presidente americano è stato «tranchant». Ma l’economia, la politica e anche l’establishment militare non sono compatti. Taipei è sicuramente fondamentale per il sistema produttivo. Con i coreani di Samsung è il fornitore principale dei semiconduttori, essenziali per le applicazioni elettroniche usata dalle industrie principali, dai computer alle auto. Inoltre Taiwan è il decimo mercato per le esportazioni Usa. Tuttavia per le imprese americane è impensabile rinunciare a tutto ciò che rappresenta la Cina, in termini di mercato e di delocalizzazione della produzione. Le lobby industriali, quindi, difendono lo status quo e certamente non hanno apprezzato la battuta di Biden.
Molto prudenti anche i generali del Pentagono, pur mantenendo lo stato di allerta nelle basi dell’area, a Okinawa e a Guam.

Una spinta diversa arriva dal Congresso, dove sta crescendo una corrente che chiede di spezzare l’ambiguità, concludendo un vero trattato economico con Taiwan, rafforzando anche la presenza militare. Tutto contenuto in un disegno di legge presentato il 25 marzo 2021 dal senatore repubblicano Marco Rubio, osservato con interesse da diversi democratici, come il senatore Ed Markey. Questo schieramento ritiene di rappresentare la maggioranza dell’opinione pubblica e cita continuamente il sondaggio condotto in agosto dal Chicago Council on Global Affairs che segnala come per la prima volta la maggioranza degli americani (il 52%) sarebbe favorevole a un’operazione armata per difendere Taiwan. L’esperienza, però, insegna a diffidare delle rilevazioni condotte a freddo. Gli umori, le reazioni possono cambiare rapidamente, quando la guerra diventa reale.

22 ottobre 2021, 22:15 - modifica il 23 ottobre 2021 | 09:53

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