24 luglio 2019 - 19:15

È morto Rutger Hauer, il replicante di «Blade Runner»

L’attore olandese aveva 75 anni ed è morto qualche giorno fa, dopo una breve malattia. La notizia è stata confermata solo dopo i funerali

di Paolo Mereghetti

È morto Rutger Hauer, il replicante di «Blade Runner»
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E’ morto Rutger Hauer, il replicante più famoso del cinema, quello che aveva visto cose «che voi umani…» se ne è andato per sempre. Ne ha dato la notizia ieri il suo agente a funerale avvenuto: Rutger Hauer era nato il 23 gennaio 1944 a Breukelen, in Olanda e in Olanda è morto settantacinquenne dopo una breve malattia il 19 di questo mese. Per tutti sarà sempre Roy Batty, il replicante che non vuole accettare il suo destino di morte e in Blade Runner (1982) lotta contro Harrison Ford, ma sarebbe fargli torto ricordarlo solo con quell’interpretazione. Accanto bisogna almeno mettere quella del clochard ubriacone toccato dalla grazia in La leggenda del santo bevitore (1988) di Ermanno Olmi (che poi lo volle anche in Il villaggio di cartone, 2011).

Una curiosa dicotomia, legata alle sue interpretazioni più magistrali — quella del ribelle affascinato dalla propria vitalità e quella dell’ultimo tra gli ultimi che trova dentro di sé la forza del riscatto — e che ha finito per non rendere giustizia a una carriera che avrebbe potuto essere forse più generosa con le sue indubbie capacità interpretative. Nato da una coppia di attori drammatici, Rutger sembra tentato all’inizio dalla carriera marinara: si imbarca a 15 anni su una nave mercantile (da cui è allontanato per daltonismo), poi si arruola anche nella marina militare; quindi si trasferisce in Svizzera dove si mantiene facendo la guida alpina. Solo nel 1967, tornato ad Amsterdam e diplomatosi in arte drammatica, inizia una carriera cinematografica dove Paul Verhoeven lo impone in parti non sempre raccomandabili: è uno scultore ossessionato dal sesso in Fiore di carne (1973), un banchiere di scarsa moralità in Kitty Tippel (1975). Si riscatta interpretando un giovane della Resistenza in Soldato d’Orange (1979).

Il successo in Olanda gli apre le porte di Hollywood, prima accanto a Sylvester Stallone in I falchi della notte (1981) poi chiamato da Ridley Scott per Blade Runner, da Sam Peckinpah in Osterman Weekend (1982), da Clive Donner per Ladyhawke (1985) e da Robert Harmon per The Hitcher – La lunga strada della paura (1986). Il suo volto, attraversato da uno sguardo capace di inquietare, sembra condannarlo a ruoli a tinte forti, dove la fisicità finisce per vincerla sull’introspezione. Così è per il reduce cieco ma esperto di arti marziali in Furia cieca (1989, di Phillip Noyce) o il campione di un futuribile e sanguinoso rugby in Giochi di morte (1989, di David Webb Peoples) o ancora un rapinatore ingannato dalla sua donna in Sotto massima sorveglianza (1991 di Lewis Teague).

Solo Ermanno Olmi riuscì a vedere oltre quell’aspetto violento e aggressivo, adattando il personaggio creato da Joseph Roth a un attore che sembrava portarsi addosso una carica di rabbia sempre pronta ad esplodere e che proprio per questo sorprese tutti, convinti all’inizio di trovarsi di fronte a un clamoroso miscasting ma cancellato alla fine dagli elogi unanimi (e se il film vince il Leone d’oro a Venezia il merito fu anche suo). Peccato che nessun altro regista ha poi voluto utilizzarlo ancora in ruolo così. Negli anni Duemila ha subito come tanti l’ostracismo di Hollywood per un’età che non si adatta più ai ruoli della giovinezza.È chiamato da Rodriguez e Miller per il ruolo di un cardinale in Sin City (2005), da Christopher Nolan per Earle in Batman Begins (2005) ma la sua carriera finisce per spegnersi in troppi piccoli ruoli dentro a film di non grande importanza.

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