Street art a Milano, dai murales dell'Ortica a quelli di San Siro: la città raccontata con le maxi opere

Ci sono muri che piangono. Quelli che cadono sotto i colpi della storia. Altri che con un pugno di colore qualcosa possono raccontarcelo tutti i giorni. Milano negli anni ha costruito una narrativa forse sottovalutata. I muri ci parlano di migrazioni, di violenze, di ambiente, di sanità eroica. Di antifascismo e legalità. Ma anche d’amore. Per la persona che rincorri nei sogni o per la squadra di calcio che ti fa saltare il cuore a ogni partita. L’ultimo murale che ruba l’occhio è cresciuto a due passi dalla stazione della Bovisa. Là dove non bastava una lapide per ricordare una ragazza stuprata e uccisa a 17 anni. Si dice che i giovani d’oggi, complice un sistema scolastico un po’ allergico all’attualità e i due anni di Dad, non conoscono le curve del loro passato più recente. La street art è una formula diretta. Non la devi cercare, te la trovi lì davanti. Come dire, se le nuove generazioni non cercano il dialogo culturale, tu gli butti un’esca che parla la loro lingua. A cent’anni dalla marcia su Roma, al Casoretto è nata un’opera d’arte pubblica che tiene insieme i danni del fascismo attraverso una carrellata di volti. Quello di via Plezzo è il murale più grande di Milano, abbastanza da tener dentro i ritratti della partigiana Noce, di Pertini, di Camilla Ravera e Teresa Mattei. Era un palazzo degli Anni 60: togli la muffa e ci carichi il colore per celebrare il peso della memoria. Un ripassino di storia esteticamente bellissimo. Non serve pensare ai graffiti delle grandi metropoli o a quelli politicamente eterni di Belfast. Ci sono città europee come Anversa, che facendo parlare i muri si sono riscoperte moderne. L’Ortica ormai è un museo a cielo aperto. Una passerella di testimonianze, con una narrativa urbana di ideali di cui oggi c’è un bisogno grosso così. C’è il murale delle donne icona del Novecento con Alda Merini e Liliana Segre, quello della legalità con Giorgio Ambrosoli, Walter Tobagi, Lea Garofalo e il generale dalla Chiesa. C’è quello della cooperazione o quello della musica popolare con Gaber e Jannacci. La dimostrazione del legame acquisito è la battaglia (vinta) per salvare i graffiti hippy in largo Murani, i primi di Milano. Un comitato, una petizione, il presidio per proteggere il muro ormai proprietà di un supermercato e alla fine il derby vinto contro l’ipotesi di realizzare le grafiche di Toiletpaper. Il passato non si cancella e sul sole che ride, la mucca dei Pink Floyd e la chitarra sacra di Hendrix saranno finiti i restauri curati dall’Accademia di Brera. L’idea bella per una città che è tornata a calamitare turisti da tutto il mondo è che possano scoprire il senso di questa città guardandosi intorno. Le cartoline sono lì, il bigino è pronto e basta muoversi per trovarselo davanti. I murales vivono a 360 gradi. Non ci parlano solo di storia, di cultura, sofferenza. Hanno sintetizzato benissimo la rivalità tra Milan e Inter, mettendo Ibra e Lukaku testa contro testa ai piedi del Meazza. Ma anche mettendo in fila i tatuaggi dei volti degli eroi del Mundial ’82 lungo la recinzione dell’Ippodromo. Il viaggio è lungo e tiene dentro il capolavoro ambientalista Anthropoceano a Lambrate, i grandi cuori del Giardino delle culture sui palazzi popolari di via Morosini, per cui il quartiere ha festeggiato dopo 30 anni in cui manco aprivano più le finestre per non rovinarsi la giornata con il degrado di sotto. Oppure il tributo ai medici eroi che hanno combattuto contro la pandemia. Quel medico che sorride dietro al velo della mascherina vicino all’Auxologico San Luca disegnato da Lapo Fatai. Per non dimenticare. Il senso eterno di un graffio di colore su un muro. Come quello di Nelson Mandela che ci sorride ormai da otto anni sui muri della Fabbrica del Vapore ricordandoci che «tutto sembra impossibile finché non è stato fatto».

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Street art a Milano, dai murales dell'Ortica a quelli di San Siro: la città raccontata con le maxi opere

La narrativa (sottovalutata)

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