9 settembre 2018 - 22:28

Libia nel caos, migliaia pronti alla fuga: «Verso l'Italia, ora o mai più»

A causa dei combattimenti, le autorità libiche sono evaporate, non c'è polizia, non naviga la guardia costiera. «L'Italia chiude i porti? Vorrà dire che moriremo in mare. Meglio sperare, partire, che restare intrappolati in Libia»

di Lorenzo Cremonesi

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Vorrebbero trasformare l’ultimo dramma di cui sono vittime indifese nell’opportunità di fuga in massa verso l’Italia i migranti assiepati sulle coste libiche. Sudanesi, eritrei, somali, nigeriani, ciadiani: ne abbiamo incontrati a centinaia negli ultimi due giorni raggruppati di fronte alle porte delle cinque sedi dell’Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr) a Tripoli.

«L'unica possibilità è partire»

«Il campo di detenzione governativo di Salahaddin otto giorni fa è stato investito in pieno dai combattimenti tra milizie libiche alla periferia della città. Le bombe hanno cominciato a cadere vicino con intensità terrificante. Le guardie libiche sono fuggite. Alcuni di noi sono rimasti feriti, c’era confusione, polvere, fracasso. Così, con un gruppo di giovani siamo scappati. Ci siamo ritrovati per la strada, soli, senza un soldo, senza un posto dove mangiare o dormire», racconta Hassan Hussein, somalo 22enne. Che cosa intendono fare lui e gli altri? «Non ci sono alternative. In Somalia non si torna, in Libia impossibile restare. L’unica possibilità è partire con i trafficanti verso le coste italiane. L’occasione è unica. A causa dei combattimenti le autorità libiche sono evaporate, non c’è polizia, non navigano i loro guardiacoste. Ora o mai più», rispondono in coro.

La guardia costiera resta a terra

Dagli uffici spogli di quello che resta il comando dei guardiacoste confermano che manca benzina e non ci sono pezzi di ricambio o marinai. «I nostri pattugliamenti in mare sono sospesi da sei giorni. Sappiamo che escono soltanto le unità ormeggiate nel porto di Khoms», specifica Massud Abdel Samat, ufficiale della marina libica che si occupa specificamente di coordinare le quattro motovedette donate l’anno scorso dagli italiani. Per la ventina di operatori internazionali dell’Unhcr che da ottobre lavorano in Libia l’attività si è fatta ancora più convulsa. Nelle ultime ore l’agenzia ha diffuso un comunicato di denuncia preoccupata contro nuovi casi di «stupri, rapimenti e torture» consumati ai danni di rifugiati, che sarebbero anche oggetto di abusi da parte di gruppi criminali che si travestono da personale unhcr. «Siamo in prima linea. Il nostro compito in questo momento è registrare ed accogliere tutti coloro che bussano alle nostre porte, specie se coinvolti negli ultimi combattimenti. Una volta identificati, distribuiamo cibo e kit d’emergenza contenenti saponi per l’igiene personale, coperte, un pigiama e del cibo», ci spiega la portavoce Paola Barrachina, 34enne d’origine spagnola.


«Ne abbiamo registrati oltre 55 mila»

Ieri oltre 300 persone erano state processate. Ma il flusso è pressante. Di fronte alle loro porte la folla resta in attesa. La portavoce riassume la dimensione del fenomeno: «Non vediamo affatto la fine dell’emergenza. Il flusso dall’Africa si è ridotto rispetto all’anno scorso. Ma non cessa. Non abbiamo alcuna idea su quanti siano i migranti in Libia. Si dice trecentomila, mezzo milione, persino ottocentomila. Ma in verità nessuno lo sa. Noi ne abbiamo registrati in tutto oltre 55.000. Ma rappresentano solo una percentuale parziale delle presenze. Ci sono prigioni controllate dalle milizie di cui nessuno parla. Nei centri di detenzione ufficiali libici gli accusati di immigrazione illegale sono compresi tra 6.000 e 8.000. Tra questi ne abbiamo attenzionati 4.500, perché ri-specchiano la definizione di rifugiati, vengono da Paesi in guerra o da situazioni in cui non possono tornare senza rischiare la vita e dunque necessitano di protezione internazionale».

«Meglio morire in mare»

Negli ultimi giorni a questa mole di lavoro si è aggiunta la necessità di assistere circa 1.800 famiglie libiche a loro volta sfollate dai quartieri contesi a Tripoli. Il caos crescente ripropone tra l’altro la questione della precarietà di decine di migliaia di ex immigrati dall’Africa sub-sahariana che da molti anni vivono e lavorano in Libia. Vi erano arrivati sin dalle aperture volute da Gheddafi nei confronti dei «fratelli africani», ma non era mai stata concessa loro la cittadinanza. È il caso della famiglia Safi, giunta da Khartum nel 1998 e residente nel quartiere tripolino di Zein Zara. Il padre Mohammad ha 52 anni, la madre Nawaz 49 e i tre figli rispettivamente 8, 9 e 14. Dice Mohammad: «Non ne potevo più di stare in questo Paese. A inizio luglio avevo racimolato i 1.000 dollari necessari per pagare gli scafisti e partire alla volta dell’Italia. Eravamo in 125 stipati su di un gommone. Ma dopo sei ore di navigazione i guardiacoste libici ci hanno intercettati e portati indietro. È stata una sciagura. Ma adesso le cose cambiano, i libici non controllano più le coste e gli scafisti stanno riducendo i prezzi dei viaggi». Ma lo sapete che il governo italiano sta chiudendo i porti? Risponde Nawaz: «Vorrà dire che moriremo in mare. Meglio sperare, partire, che restare intrappolati in Libia».

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