Iran-Usa, la partita più tesa del Mondiale. Tutti i motivi dello scontro

di Viviana Mazza, corrispondente da New York

L'Iran batté gli Usa nel ‘98 e Teheran impazzì di gioia. Stavolta vale anche il passaggio del turno. La polemica della bandiera ritoccata e la lite tra Klinsmann e Queiroz

desc img

Ventiquattro anni dopo, per la seconda volta, Stati Uniti e Iran si sfideranno ai Mondiali. La prima fu nel 1998, in Francia: una performance imbarazzante per gli americani, sia perché furono sconfitti dalla Repubblica Islamica, sia perché segnarono un solo gol in tre partite (e le persero tutte) durante la fase a gironi. Per l’Iran fu un evento storico. Team Melli — in persiano «la squadra nazionale» — rese felice un intero popolo. Era il primo ritorno ai Mondiali dopo la Rivoluzione islamica (l’ayatollah Khomeini non mandò la squadra nel 1982 e nel 1986; poi non riuscì a qualificarsi) in un momento in cui gli iraniani «volevano solo essere felici», spiegò l’allenatore Jalal Talebi, che aveva passato quasi tutta la vita in California e si commosse alla cerimonia in cui il suo team consegnò rose bianche agli avversari. Dopo la vittoria contro gli Stati Uniti, gli iraniani «danzarono fino al mattino nelle strade di Teheran, bevendo apertamente alcolici, e le donne si tolsero il velo» — lo stesso velo che negli ultimi due mesi ha infiammato le proteste nel Paese. «I Pasdaran glielo lasciarono fare, perché erano tifosi prima di tutto», raccontò un funzionario iraniano della Fifa.

Dal regime, quella fu presentata come una vittoria contro il Grande Satana. Non importava che Teheran non si fosse qualificata agli ottavi: battere l’America era come vincere la Coppa. «Non perderemo: lo facciamo per le famiglie dei martiri»», giurò l’attaccante Khodadad Azizi, riferendosi ai 500mila morti nella guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein appoggiato dagli Usa. Oggi molto è cambiato. La dichiarazione più importante è stata quella del capitano Ehsan Hajsafi: «Nel nome del Dio degli arcobaleni... siamo con voi», ha detto, citando la frase di un bambino di nove anni ucciso nelle proteste interne al Paese e dando il suo sostegno a chi lotta contro il regime di Teheran.

Nel 1998 gli americani arrivarono a Lione con le guardie del corpo. C’era il timore di violenze. Il ct Steve Sampson raccontò che i suoi ragazzi erano troppo giovani per ricordare la crisi degli ostaggi all’ambasciata Usa di Teheran dopo la rivoluzione islamica del 1979. Il centrocampista statunitense Tab Ramos osservò: «Questo match è più importante per loro che per noi. Non ho sentito nessuno dire: Battiamo l’Iran, facciamolo per Bill Clinton!». Sampson, che evitò di politicizzare la partita come raccomandava la Fifa, oggi farebbe le cose diversamente: «Racconterei la storia dei due Paesi, per motivare i miei ragazzi».

Ventiquattro anni dopo, l’unico gesto politico del Team Usa è stato di togliere dei post sui social «il simbolo del regime» dalla bandiera della Repubblica islamica «per solidarietà alle donne iraniane», salvo poi rimetterlo 24 ore dopo, quando gli ayatollah hanno protestato che «era stato tolto il nome di Dio». Risultato: Teheran chiede ora l’espulsione degli Usa dai Mondiali e la loro sospensione per 10 partite per violazione del regolamento.

Questa sfida sullo sfondo del fallimento dell’accordo nucleare e della fornitura di droni (e potenzialmente di missili) iraniani alla Russia riscuote meno attenzione sui giornali americani rispetto all’Nfl e all’Nba. Per gli iraniani è diverso: è la loro più grande opportunità finora ai Mondiali, eppure non c’è gioia. E come può esserci, con 450 morti e 18mila arresti in patria? Tifosi pro e anti regime si scontrano davanti allo stadio di Doha. Molti iraniani sono delusi dai giocatori, che prima di volare in Qatar hanno posato in foto con il presidente Ebrahim Raisi. «È come un innamorato che ti ha tradito nel modo peggiore», dice Mahmood Amiry-Moghaddam, patito del pallone e direttore della ong Iran Human Rights.

«In una partita non hanno cantato l’inno, ma la gente si aspettava di più. Li vedevano come leader ed eroi, non semplici calciatori». Quando l’ex ct della Nazionale americana Jurgen Klinsmann ha detto alla Bbc che gli iraniani giocano sporco «perché fa parte della loro cultura» c’è stato un insolito attimo di unità: hanno protestato sia il regime (e il ct Carlos Queiros) che gli attivisti anti-regime. È durato poco. Team Melli, che una volta univa la nazione, ora rispecchia le crepe di un Paese in lotta con se stesso. Eppure tanti sono contrari a sanzionare gli atleti. «È ciò che vuole l’estrema destra americana — dice Fariba Pajooh, una fan che vive a Detroit —. Sì, sono delusa, ma partecipare almeno dà l’opportunità di essere una voce per l’Iran»

28 novembre 2022 (modifica il 28 novembre 2022 | 15:16)