Morto Dan Graham, l’arte come un gioco di specchi

di VINCENZO TRIONE

Protagonista dell’arte concettuale, si è mosso in una prospettiva «totale» tra diversi media: scultura, installazione, fotografia, video, architettura. Aveva 79 anni

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L’artista americano Dan Graham (31 marzo 1942 – 19 febbraio 2022; foto Monica Boirar)

È stato un artista intimamente novecentesco, Dan Graham (scomparso il 19 febbraio all’età di 79 anni). Erede delle utopie avanguardistiche — celebrato con antologiche dal Moca di Los Angeles e dal Whitney Museum di New York, più volte presente alla Documenta di Kassel, alla Biennale di Venezia e allo Skulptur Projekte di Münster e premiato dall’American Academy of Arts and Letters di New York — si è sempre mosso in una prospettiva «totale», incurante delle barriere tra luoghi, mondi e generi. Artista, ma anche critico, curatore, gallerista. Affascinato dalla possibilità di transitare tra pratiche distanti e territori non contigui.

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Particolare del Pavillon realizzato a Berlino da Graham

Tra il 1964 e il 1965 Graham dirige la Daniels Gallery di New York, dove ospita mostre, tra gli altri, di Sol LeWitt, di Dan Flavin, di Donald Judd e di Robert Smithson. A qualche anno dopo risalgono le sue prime opere, ricche di consonanze con le poetiche concettuali. Innanzitutto, le fotografie stampate su riviste, come Figurative (1965) e Schema (1966). E, poi, Income (Outflow) Piece (1969-1973). Un’investigazione sul «valore» dell’artista: in un dattiloscritto si riassumono i diversi passaggi di un’operazione attraverso la quale Graham stesso ha formalizzato la sua attività in una società per azioni.

A differenza della maggior parte dei protagonisti del concettuale, però, Graham ama compiere scorribande tra media diversi, transitando dalla scultura alla performance, dall’istallazione alla fotografia, dal video all’architettura. Indifferente al rispetto della specificità dei diversi linguaggi, in dialogo inquieto con Body Art e performance, è animato soprattutto da una tensione analitica: si interroga sul funzionamento interno di ogni dispositivo utilizzato e sulla relazione tra l’opera e lo spettatore.

Si ricordi Roll (1970). Una performance strutturata in funzione della ripresa filmica. Graham utilizza due telecamere: una a terra, fissa e «obiettiva»; l’altra attaccata all’occhio. La ripresa in soggettiva contrasta con quella oggettiva. L’artista-attore rotola nello spazio inquadrato dalla telecamera immobile, riorientando continuamente il proprio obiettivo su di essa. Un modo ardito per visualizzare lo scarto tra come vediamo noi stessi e come veniamo visti.

La medesima tensione analitica si può ritrovare nei Padiglioni realizzati sin dagli anni Ottanta. Strutture in ferro e vetro costruite in luoghi pubblici. Esercizi per disegnare spazi liminari all’interno dei quali si dissolvono i confini tra scultura e architettura. Territori ibridi, nei quali lo spettatore si confronta con i concetti di spazio e tempo, interno ed esterno: dimensioni che Graham altera e rimodula grazie a un sistema di vetri opachi o riflettenti, che determinano lo smarrimento percettivo nel pubblico. Preludio a questi sconfinamenti, Time Delay Room (1975). Due stanze collegate: nel punto di passaggio tra i due ambienti, due telecamere a circuito chiuso registrano ciò che accade e trasmettono le immagini a monitor collocati nei due spazi. Queste riprese, però, sono trasmesse con un ritardo di 8 secondi, portando il pubblico a vivere un’esperienza spazio-temporale straniante.

In fondo, Time Delay Room ci parla dell’identità profonda di questo artista d’avanguardia. Sfuggente e imprendibile, come un gioco di specchi.

20 febbraio 2022 (modifica il 20 febbraio 2022 | 16:05)